Il distaccamento Zoppis apparteneva alla 109ª Brigata della 12ª Divisione Garibaldi, e il giorno del 1° marzo 1945 era composto di trentatré uomini, si erano spostati dal Monferrato, e durante il tragitto di ritorno alla base Biellese, furono catturati dai fascisti repubblichini con la collaborazione di soldati nazisti, all’interno della cascina Spinola, nella pianura Vercellese tra Bianzè e Livorno Ferraris.
Stanchi e spaesati per l’errare tra campi e paesi a loro sconosciuti, nella nebbia mattutina scorsero un casolare attorniato di mura, pensarono a un luogo sicuro in cui riposare, e non misero nessuno di guardia.
Furono svegliati da una sparatoria, alcuni erano già stati catturati, agli altri intimata la resa.
Portati a Tronzano Vercellese, dove c’era il Comando Nazifascista, furono rinchiusi in una stanza.
Il giorno dopo divisi in due gruppi, l’uno di dodici prigionieri fu mandato a Vercelli e l’altro di ventuno rimase per essere interrogato, e successivamente inviato a Santhià. Rinchiusi a Santhià per alcuni giorni, qui ricevettero la visita di un prete, che non portò loro il conforto religioso, ma l’informazione che erano in atto delle trattative per uno scambio di prigionieri.
« … La notte del 9 marzo ci comunicarono che saremmo partiti verso una zona del Biellese dove ci sarebbe stato uno scambio di prigionieri.
Il breve tempo trascorso dal nostro arresto ci fece pensare all’impossibilità della cosa, ma ci aggrappammo a quella speranza.
Nel cortile dell’edificio si trovavano dei camion su cui ci fecero salire e quando partimmo il nostro sforzo era di capire, attraverso le fessure, quale fosse la direzione presa, ma nessuno di noi era pratico della zona ed era notte.
Nella nostra mente i pensieri si accavallavano ai pensieri mentre il rumore dei motori ci faceva pensare a una salita.
Quando i camion si fermarono, fummo stupiti di trovarci in una piccola piazza circondata da case, più lontano mi parve d’intravedere la chiesa di quel piccolo paese immerso nel silenzio.
Ci avviarono verso un edificio e, nella camera a pianterreno, cominciarono subito le sevizie; infierirono su di noi con sadica ferocia.
Non vedevo più nulla, sentivo i colpi mentre la stanza si riempiva di gemiti e urla che non avevano più niente di umano.
È impossibile descrivere quello che è successo.
Ricevetti un colpo violento sulla fronte e il sangue, che scendeva copioso, mi accecava; caddi supino in un angolo evitando un secondo colpo, altri compagni caddero su di me coprendomi in parte.
Sentivo urla e gemiti dei morenti e mi chiedevo quando sarebbe giunta la fine.
Ai primi chiarori dell’alba cercai di alzarmi.
I nazifascisti mio afferrarono e mi colpirono ancora con i calci del fucile spingendomi verso un muro, mentre alcuni automezzi con i fari accesi illuminavano la piazza.
Avrei voluto pulirmi il sangue che mi colava sugli occhi, ma mi accorsi di avere le mani legate dietro la schiena; altri compagni venivano trascinati per i piedi fuori dall’edificio.
Poi accadde un fatto che ha dell’incredibile: un fascista si avvicinò e cercò di strapparmi il giubbotto mentre un altro mi spingeva violentemente; sentii le corde allentarsi e le mani muoversi.
Con la forza della disperazione mi buttai contro il mio assalitore che mi afferrò per le braccia, in quel momento la corda scivolò e sentii le mani libere.
Mi avvinghiai disperatamente a lui trascinandolo fuori alla luce dei fari.
Come una furia sfuggii ad altri fascisti che erano accorsi per immobilizzarmi e mi lanciai verso un vuoto che intravedevo oltre un muro tirandomi dietro uno di loro.
L’oscurità e il timore di colpire il compagno impedì loro di spararmi subito e questo mi permise di rotolare verso il fondo della scarpata.
Quando mi accorsi di essere solo, cominciai a strisciare fra rovi e cespugli: le spine mi entravano nella carne, ma erano la mia salvezza, ostacolavano l’inseguimento e ogni passo in avanti era un passo verso la vita.
Riuscii a bere un po’ d’acqua in un torrente, poi ripresi a fuggire cercando di rimanere dove gli alberi erano più fitti, ormai le gambe mi reggevano a stento.
Come in un sogno incontrai i partigiani, ma non chiedetemi come sono arrivato qui, non lo so, non ricordo altro che i miei compagni rimasti là, nella piazza in un paese di cui non conosco il nome ».
Venti furono gli uccisi di Salussola nella notte dell’8 e l’alba del 9 marzo 1945; l’unico che si salvò fu Sergio Canuto Rosa, detto ” Pittore “.
Attualmente Sergio Canuto Rosa è deceduto.